Disegno come Lavoro - Remo Gaibazzi

Disegno come Lavoro

Lezione tenuta da Remo Gaibazzi al Corso di Disegno della Facoltà di Ingegneria dell'Università di Parma l'8 aprile 1988

a cura di Alberto Mambriani

Mambriani: La lezione di oggi è “Disegno come “LAVORO”. Vedremo come questa sottile trama: lavoro, possa essere interpretata come una del tutto particolare tessitura. Tale concetto ha le sue radici alla metà del XV secolo nei prodotti tipografici magontini, ad imitazione delle forme spezzate della libraria gotica tedesca. Viene riproposto in termini moderni dal Bauhaus per identificare una superficie od il carattere di un certo materiale. Anche Bruno Munari ha dato alla tessitura un notevole contributo di studio e di approfondimento. Giulio Carlo Argan ha dato a questo concetto teorico contenuti più ampi. Tessitura non è solo accostamento di varie materie o di diverse qualità di superficie ma ricerca di una nuova spazialità che deve sprigionarsi dalla materia anche in funzione della dimensione temporale che deve essere aggiunta alla caratteristica spaziale dell’oggetto.
Il nostro ospite, il pittore Remo Gaibazzi, ha dedicato alla “scrittura”, paragonabile per certi versi con molte semplificazioni alla tessitura, molta parte della sua ricerca formale. Mi scuserà l’amico Gaibazzi se il suo percorso così complesso, che passa da una attenta elaborazione sociale ad una costante messa in discussione del suo essere artista, viene ora da me così semplificato.
L’esasperata tensione alla perfezione nella ripetizione della parola “LAVORO” non rappresenta per Gaibazzi solo un rigoroso rispetto di regole geometriche, di ricercati toni, di sfumature di colori, di tessitura appunto, ma anche un dirompente messaggio sociale e politico. Il lavoro dell’artista non è un rapido segno dell’ingegno, ma un drammatico, massacrante LAVORO.
Mi è capitato spesso di paragonare il difficile percorso della progettazione architettonica ed ancor più quello della realizzazione di una architettura con l’esperienza pittorica di Gaibazzi. Questo operare incessante, senza sosta, che occupa anche il tempo libero in un costante e totale farsi e rifarsi secondo un unico filo conduttore. Superfici bianche, oppure grigie e d’oro, sempre e comunque cesellate, intessute, intarsiate dalla parola: LAVORO LAVORO LAVORO LAVORO.
Scrittura ossessivamente e poeticamente reiterata non tanto e non solo come misura del tempo impiegato dall’artista per comporre la sua opera, ma parametro dimensionale del tutto paragonabile a quello dell’operaio assoggettato ad un lavoro incalzante e continuo.
L’autore ci spiegherà cosa esiste al di là dei suoi quadri cesellati. Egli rappresenta per me e per molti più giovani di me una sorta di coscienza critica per questa città sonnolenta, grassa ed appagata. Egli impersona a mio avviso la figura dell’intellettuale moderno. Vanno infatti superate nell’idea di intellettuale presunte superiorità spirituali e culturali, ma gli si devono attribuire funzioni direttive e critiche nell’ambito di una collettività. L’operare intellettuale infatti deve necessariamente agire su almeno tre fronti: il disciplinare, il politico, la coscienza critica.
Per dare un contributo su questi tre fronti così diversi, l’intellettuale deve essere un tecnico di alta qualità nel suo settore professionale: artista, architetto, ingegnere, avvocato, ecc., ecc., non deve estraniarsi dai problemi politici del suo tempo, deve partecipare alla vita della collettività in cui vive. Gramsci nei Quaderni dal carcere diceva appunto: “Il modo di essere intellettuale non può più consistere nella eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica come costruttore, organizzatore, pensatore permanente”. Gaibazzi impersona appunto questo intellettuale. Vorrei che ci disvelasse anche il suo mondo urbano, il suo modo di vedere la città e l’architettura, il suo modo del tutto personale di coniugare azione sociale, immagini di cupole e campanili, sentimenti di bellezza e di perfezione.
Inizieremo la rassegna dalle sue opere più recenti legate alla tessitura, poi vedremo quelle della ripetizione di parti di monumento, poi le opere giovanili ormai introvabili che documentano una attenzione partecipata alla vita degli umili e dei diseredati.

Gaibazzi: Posso commentare queste diapositive mentre le guardano: il problema del modo di “vedere” è un problema che è giusto discutere: il modo di come ci si accosta a vedere un oggetto artistico.

Mambriani: Vedete quei piccoli segni in azzurro, rosso, ecc…, ognuno è “lavoro”.

Gaibazzi: Questa posizione, con l’atteggiamento normale con cui si guarda un quadro, è una posizione di una certa distanza, nella quale l’occhio abbraccia l’oggetto nella sua interezza, nella sua simultaneità e con uno sguardo si dà un giudizio sul tutto. Questo atteggiamento che riguarda soprattutto la vista in cui un soggetto si accosta a un oggetto e si rispecchia attraverso l’atto percettivo di inglobazione totalizzante della cosa, in cui totalizza anche sé come soggetto, in questo caso viene ribaltato perché da questa distanza voi non vedete niente, l’occhio non coglie nessuna cosa, nessuna particolare forma significativa. Vedete un baluginio di cose; però non ha un senso, non ha una composizione, non è un’opera, non è un tutto. Perciò dovreste varcare la soglia di questa distanza estetica, per avvicinarvi in quella posizione che cambia anche la qualità dell’approccio. Perché nella vicinanza comincia la lettura: non più lo sguardo totalizzante, non più lo sguardo che coglie un tutto finito, ma comincia la lettura. Comincia così un attraversamento della processualità; non più di un tutto finito, ma del movimento del procedere, del movimento del processo, del movimento dello sviluppo. Questo atteggiamento significa anche affrontare il concetto secondo il quale un soggetto è una totalità piena, finita e assoluta. Per me il soggetto umano è un processo, non una totalità finita. Per questo sollecito ad avvicinarsi per leggere il processo più che un oggetto finito: questo dà la sensazione che anche il soggetto è in processo. Questo è un punto chiave molto interessante perché per capire ciò che io intendo dire sul problema del lavoro bisogna arrivare al concetto che il soggetto è in processo, è in incessante sviluppo, è in una continua trasformazione. Come la parola “lavoro” è il trattino minimo col quale si coniuga il rapporto soggetto-oggetto, questi nascono non dalla fissità dell’oggetto né dalla fissità del soggetto, ma nascono dall’azione di trasformazione reciproca; in questo senso il soggetto non è più il soggetto tradizionale della pittura che era poi espressa in modo sublime dalla prospettiva, di fronte alla quale c’era un soggetto stabile, cartesiano, che aveva nella rappresentazione un punto ultimo, finale, in cui il soggetto umano fronteggiava il soggetto divino, tutto raccolto in un’unità di senso.
La parola “lavoro” invece è la parola che suggerisce l’idea che il soggetto umano è semplicemente relazione, una relazione uomo-natura; è un atto semplicemente di tra-sformazione, ma la consistenza della realtà dell’uomo sta nel fatto di essere semplicemente trasformazione, semplicemente processo, semplicemente sviluppo; non una soggettività piena, assoluta, che avrebbe un rispecchiamento in un’entità soprannaturale che la compensa.
La parola “lavoro” è questo trattino minimo in cui c’è il primo battito di un corpo che reagisce a una materia diversa, eccetera. Questo trattino minimo ha due connotazioni: significa “io lavoro” e, nello stesso tempo, significa “lavoro” sostantivo, cioè è simultaneamente significante e significato, simultaneamente è atto e risultato dell’atto, è verbo, perciò movimento, e simultaneamente è ciò che avviene in questo movimento. Ciò cosa porta? Porta al movimento inteso come l’elemento primario di ogni tipo di sviluppo, porta alla successione, al cambiamento, alla trasformazione, porta a ciò che è il desiderio profondo dell’uomo: la trasformazione. Vi cito una frase molto bella del filosofo francese Gaston Bachelard: “L’uomo è una creazione del desiderio, non del bisogno”. Il lavoro per l’uomo, nella cultura occidentale, è stato relegato al territorio dell’economia, cioè il lavoro appartiene all’economia, a ciò che significa fatica, sforzo, necessità. Vorrei arrivare a concludere che il lavoro è sì l’espressione del bisogno, ma in modo più profondo, ultimo; di base è l’espressione del desiderio dell’uomo. L’arte nella sua storia ha sempre rinnegato d’essere lavoro, perché voleva essere un’espressione più alta (il lavoro è sempre stato considerato come la parte infima dell’attività umana), doveva essere un carattere espressivo, doveva avere il carattere di qualche cosa che dal di dentro si esprime e produce un segno esterno, ha sempre avuto il carattere descrittivo della natura, un carattere contemplativo, nostalgico. Nel tempo moderno è cambiato molto: questa idea della pittura che ha attraversato varie fasi storiche e che simboleggiava in qualche modo gli assetti socio-economici. Dal momento in cui la pittura ha scoperto l’astrazione e si è sottratta alla rappresentazione del reale esterno e alla rappresentazione del presunto reale interno, è andata avanti in una stretta connessione con quelle che erano altre forme del pensiero, per esempio il pensiero scientifico. Il grande fisico Heisenberg (quello del principio di indeterminazione) dice: “La scienza naturale non è una descrizione e una spiegazione della natura ma è una parte dell’attività reciproca tra l’uomo e la natura”. C’è una reciprocità, c’è un rapporto, c’è il lavoro che connette tutto. Un altro dice: “La filosofia occidentale ha sempre cercato la verità ultima nella sostanza. La filosofia orientale ha sempre cercato la verità nella relazione”. E allora ritorniamo a questa parola “lavoro”, che per me è la se della relazione. Il primo grande intervento dell’uomo, il primo grande tabù e ciò che costituisce il primo passaggio verso la cultura, è lo sganciamento dalla fusione con la natura, è il tabù dell’incesto. Cosa significa il tabù dell’incesto: rinunciare alla fusione con la natura, rinunciare al godimento immediato, anche di carattere carnale con la madre, rinunciare soprattutto al godimento immediato e andare verso il mondo. Cosa significa questo passaggio? Significa che nel godimento immediato è rimasto l’animale che gode dei frutti della natura e con questa è fuso. Quando attraverso questo primo tabù l’uomo si distacca dalla natura e la fronteggia, deve creare le condizioni della sua sopravvivenza. Cosa significa creare le condizioni sopravvivenza e non potere godere immediatamente di ciò che esiste? Significa progettare, rinviare il godimento, significa creare le premesse perché il godimento avvenga più avanti. Questo differire è la qualità che caratterizza l’uomo; l’uomo è fondato su questa qualità: della costruzione artificiale della sua sopravvivenza. L’arte non è che il vivere dell’uomo, il quale è costretto a vivere artificialmente perché non è naturalmente iscritto nella natura, perché si è separato, e mediante il linguaggio e mediante il lavoro.

Studente: Non mi pare di aver capito. Cosa c’entra l’incesto con la ricerca all’uomo?

Gaibazzi: Non è che l’incesto abbia un carattere moralistico: cioè tu non potresti godere sessualmente di tua madre della sorella: vuol dire che tu devi :scoprire la donna, e perciò andare verso il mondo e perciò aprirti verso una serie infinita di relazioni attraverso le quali crei le condizioni per la tua sopravvivenza. Questa prima caratteristica dell’incesto dovrebbe essere di denotazione sessuale; se studi Freud vedrai che i primi impulsi dettati dalla; sessualità poco alla volta si trasformano in gesti: i primi gesti umani che riguardano l’atto collettivo del lavoro sono sempre ritmati da parole che; evocano l’atto sessuale. L’energia libidica, lentamente, mediante questo distacco diventa energia sublimata e diventa energia produttiva di condizioni per la sopravvivenza dell’uomo, diventa energia trasformativa. Ora l’energia libidica dell’uomo, oggi la cosiddetta forza-lavoro pensata da Marx, è una grande forza di trasformazione. Che poi si facciano sfruttamenti del lavoro, lo si caratterizzi, non conta niente. Il lavoro va pensato non solo nei termini dell’atto finalizzato, ma anche nei termini in cui noi siamo lavorati. Per esempio, riferendoci ancora a Freud, vediamo che in un punto, quando parla del sogno dice: “il lavoro onirico (e lo chiama lavoro( non pensa, non calcola, ma si limita a trasformare”. Nel profondo del nostro essere noi siamo continuamente lavorati dai processi che dall’inconscio arrivano al conscio. Ma sono soltanto processi, perché non esiste un inconscio in sé, separato, riconoscibile in quanto tale e un conscio dall’altra parte. Esiste questa traduzione incessante di una forza oscura che passa in una forza chiara. Ma noi non siamo mai nella forza chiara, siamo semplicemente ed esclusivamente trasformazione, cambiamento, relazione. Tutto questo può essere considerato e messo in relazione alla nostra cultura, alla cultura che ha avuto il massimo dello sviluppo tecnologico; e pensiamo che occorre specificare questo: che produrre significa portare davanti (produrre = portare alla visibilità qualche cosa). La nostra cultura è fondata sulla simultanea presenza degli oggetti che sono l’effetto finale di processi che non si vedono. L’analisi lunghissima del processo della merce che ha fatto Marx è sempre terminata con questa conclusione: la merce è un incantesimo, arriva di colpo davanti agli occhi, finita, totale, assoluta, nascondendo con questa sua presenza luminosa tutto il lavoro segreto che l’ha portata ad essere visibile; questo è il grande mondo della tecnica. Però prima del mondo della tecnica esiste un lungo periodo oscuro del lavoro umano che ha cominciato a trasformarsi: dal momento in cui Platone ha cominciato a formulate il primo concetto sulla tecnica. La tecnica. è una operazione che mira direttamente e fulmineamente allo scopo. La tecnica è un’operazione mediante la quale da un’idea iniziale si vuole passare fulmineamente alla materializzazione dell’idea, l’apparizione immediata, materializzata dell’idea. Questa è la storia del nostro mondo: tutto il lavoro è sempre scomparso perché c’era l’idea di chi progettava qualche cosa e c’era immediatamente l’oggetto che corrispondeva a questa idea. C’è un’oscurità profonda nelle forme, nelle forze, nelle energie, nelle forze libidiche che hanno portato all’evidenza questi oggetti. Voi stessi capite che siamo nella cultura dell’immagine, sentite che siete catturati continuamente da immagini, da dati, e nessuno vi intriga mai nelle forze, nei processi che determinano questi dati. La vostra realizzazione, secondo voi e la cultura occidentale, è il possesso più vasto, più complesso. più ricco, di dati, di elementi, ignorando che la vera realtà, la vera realizzazione dell’uomo è il lavoro, ma inteso in senso più profondo rispetto a come viene definito dall’economia, cioè il processo attivo; pensando che il desiderio nella nostra cultura è pensato desiderio d’oggetto. Dovete pensare che il desiderio che è continuamente sobillato dalla pubblicità, dalla produzione di oggetti, è desiderio secondario, perché il desiderio primario, fondamentale, dell’uomo, è il desiderio della trasformazione. Il desiderio d’oggetto è un desiderio secondario, ripetitivo, però dà garanzia, perché di fronte a un oggetti il soggetto si garantisce, si sente pieno, assoluto, frontale. Tuttavia l’uomo frontale che è stato espresso nell’arte, nella prospettiva, non esiste più, perché l’uomo moderno, l’uomo maturo è un soggetto operativo; il che significa che non è più contemplativo, espressivo, descrittivo, nel senso che contempla delle immagini interiori e le trasmette, ma è operativo, è trasformativo, è proiettato continuamente nella proiezione fra sé e l’altro. Allora se stabiliamo che la realtà non è un’entità fuori di noi, immobile, ferma, ma è una relazione (perché un semplice atto percettivo è un atto di lavoro, non è una caduta improvvisa dal cielo); se poi pensiamo che ogni oggetto è suscettibile di una interpretazione infinita, e non è possibile oggettivarlo vedete che cosa significa la potenza della processualità rispetto alla fissità degli oggetti. In queste cose che voi vedete non ci sono rappresentazioni di qualcos’altro di cui questa immagine sia il riflesso, sono puri atti che rimangono in atto, sono atti che continuamente si tengono in sospeso perché non muoiono in una forma finale: sono quindi processi in atto; in quanto tali non sono nemmeno opere, sono dei campi di energia in sospeso. Noi siamo soprattutto processo, energia mobile, movimento, scorrimento.
Per quanto vi riguarda più diretta mente Mambriani accennava agli spazi, ecc, Io posso accennarvi ai problemi di spazio, non però strettamente connessi allo spazio specifico urbano, ma ai problemi di spazialità. Ora, in un percorso come questo dove una parola che è un atto, un gesto, scorre e va verso la successione, che è ciò che caratterizza il lavoro, questo scorrere attivo produce il suo tempo soggettivo e produce la sua spazialità; c’è una coniugazione strettissima fra tempo che si spazializza e spazio che si temporalizza, rimanendo sempre in atto. Non è una strada già fatta che si ripercorre, qui la strada viene fatta, si fa.
Lo spazio, in genere. viene sempre visto come qualche cosa al di fuori di noi, contemplabile dall’occhio, un’astrazione entro la quale possono fluttuare, essere collocati degli oggetti. Ora lo spazio non è una cosa così astratta, è una cosa viva: i processi stessi che ci determinano dal profondo sono delle spaziature, per esempio la scrittura dall’inconscio al conscio è una spaziatura continua, noi ci spazializziamo continuamente e ci temporalizziamo. Dobbiamo riuscire a intendere lo spazio come qualche cosa di vivo, qualche cosa che è sempre l’inizio del tutto, dobbiamo pensare lo spazio come il luogo della relazione (quella esistente fra due termini concreti), che è invisibile: ma questo è lo spazio. Lo spazio non è un vuoto: è la relazione, la vita.

Mambriani: Quindi, rispetto all’ interpretazione che vi avevo dato io, dello spazio urbano, finito, percepibile di un punto di vista tradizionale, percepibile a 360 °, Gaibazzi inserisce questo concetto molto più ampio, più vivo.

Gaibazzi: Voi provate a fare un esercizio: guardate i grandi monumenti che sono sempre posti lì per essere oggetto di uno sguardo incantato, che li coglie nella loro pienezza. Provate ad andare a vedere lo spazio fra la torre del Duomo e il Battistero: vedrete che se isolate il Battistero, vi incanta il Battistero, se isolate la torre vi incanta la torre. Provate a guardare lo spazio fra la torre e il Battistero e ascoltare la profondità di significato che ha questo spazio. Questo non vuol dire che si devono dimenticare i termini della relazione, ma sapere che i termini ci so no per scatenare delle relazioni; perché quando siete incantati davanti al Battistero dovreste pensare anche a quello che sta succedendo: sta succedendo una forte relazione, tra la vostra emozione e il Battistero. Questo è spazio-tempo. è l’esistenza, il pulsare dell’esistenza.

Studente: Quando Andy Warhol metteva una lattina su un piedistallo rimaneva sempre una lattina; l’emozione c’è perché si contempla quello che ha fatto l’uomo.

Gaibazzi: Quanto hai detto sulla lattina di Andy Warhol, mi fa pensare che il tuo concetto di oggetto, che sia lattina, che sia Duomo, è l’idea che informa quasi tutti, che gli oggetti siano là in quanto tali. immobili nella loro specificità. Dobbiamo riuscire a pensare all’oggetto come a un evento, un accadimento, perché è un atto percettivo, che tu credi che sia fulmineo, Un atto percettivo è un lavoro di una complessità enorme. Tu vedi che intorno alla parola “lattina” che è una parola che definisce un oggetto e In cristallizza nella sua fissità, c’è un movimento di interpretazione infinita: lo e te potremmo andare avanti all’infinito a interpretare che cos’è una lattina, e faremmo del lavoro continuamente. La lattina non è più allora un termine fisso, è un elemento scatenante movimento e in quanto tale scompare come entità fissa perché determina un movimento. Bisogna stare molto attenti alla prepotenza della cultura occidentale che tende a cristallizzare. La cultura occidentale è fondata sul privilegio assoluto dello sguardo, dell’occhio considerato come strumento mediante il quale si compie la conoscenza. Non è vero,

Studente: Sono discorsi molto astratti che non hanno niente di reale… Citiamo la Bibbia: “Il giglio del campo è cresciuto spontaneo e semplice ma neppure Salomone in tutto il suo splendore non è mai riuscito a fare una cosa così bella”. Solo guardando il giglio si può pensare a qualcosa di diverso più che guardando una lattina (che è creata dall’uomo). Il giglio però non è stato creato dall’uomo, è cresciuto spontaneo. la lattina è invece trasformazione fatta dall’uomo; e si può continuare a parlare della lattina fin che si vuole, e questo anche del giglio; però sono su due lati completamente opposti. Del giglio non arriviamo a comprendere la bellezza, della lattina comprendiamo tutto, basta chiedere alla persona che per prima ha realizzato la lattina. Non possiamo chiedere cosa rappresenta un giglio, anche se non c’è cosa più bella.

Gaibazzi: Siamo perfettamente d’accordo che il giglio sia molto più bello di una lattina, Noi parlavamo di processi e del destino dell’uomo che è quello di dovere necessariamente trasformare l’ambiente per creare i presupposti della sua sopravvivenza. Allora questo principio della necessità della trasformazione è la qualità che crea la trascendenza dell’uomo in quanto è immanenza e pura necessità, e diventa nello stesso tempo trascendenza. Allora il giglio ha uno scopo interno al suo divenire; noi dobbiamo invece porre uno scopo. Tu citi la Bibbia, io cito Marx, che dice: “L’ape crea delle composizioni architettoniche perfette, però anche il peggiore architetto di questa terra è più bravo dell’ape, perché pone lo scopo”. Ritorniamo al discorso che facevamo prima: porre lo scopo vuol dire che tu sei costretto a progettare delle condizioni per salvaguardare l’esistenza dell’uomo, della specie. Questo scopo che è posto (invece nel giglio è già interno al suo fluire) è la trascendenza dell’uomo, è la nobiltà dell’uomo.

Studente: Per Marx l’uomo non ha sentimento. L’uomo è una macchina…

Mambriani: Mi pare una interpretazione semplificata della teoria marxista. Credo che possiamo contestare idee e teorie solo se le abbiamo approfondite. Se volete possiamo fare un seminario su Marx ed essere più preparati a questo tipo di discussione.

Gaibazzi: Ho citato Marx per caso e la mia concezione del lavoro non coincide con quella di Marx. Perché quando dice che il lavoro è un’attività conforme allo scopo io dico che il lavoro ha uno scopo superiore allo scopo contingente.

Mambriani: Posso dire che se si è profondamente cattolici, si deve profondamente capire il marxismo, perché sono due momenti di grande forza ideologica, di grande utopia e quindi non ci deve essere questa contrapposizione tra due teorie che devono arrivare entrambe al bene dell’uomo (il diseredato, la persona non ricca, l’handicappato); non vedo questo livore contro un tipo di atteggiamento, di filosofia.

Studente: Sono due dogmi, allora.

Gaibazzi: No; il dogma cattolico, per esempio, è “All’inizio era il Verbo..” Allora se è vero che all’inizio era il Verbo, che cosa c’è all’inizio? C’è il linguaggio; c’è semplicemente la relazione. Perché il linguaggio è quando ci sono cose che si implicano, che però sono distaccate, sono divise, non c’è un’unità. Esserci il linguaggio vuoI dire esserci interpretazione, vuoi dire che Dio è semplicemente interpretazione perché all’inizio era il Verbo: andiamo vicino alla parola lavoro.
L’uomo diventa tale mediante l’invenzione del linguaggio e mediante l’invenzione del lavoro sennò non è uomo. Com’è che l’uomo diventa un soggetto di fronte a un oggetto? Mediante la parola che definisce la cosa e mediante il lavoro che trasforma la cosa. Qual è altrimenti la posizione dell’uomo? Non c’è altro modo.

Studente: Quando si parla di “Verbo” si intende nella traduzione dal greco e quindi con il significato non soltanto di parola ma soprattutto di principio.
L’uomo si trova ad essere soggetto e oggetto contemporaneamente (mi rifaccio soprattutto alla filosofia di Kant e all’epoca moderna) e quando l’uomo deve considerare se stesso attraverso l’oggetto, quindi vedersi in trasformazione, può coesistere con un’idea di una entità ordinaria, unica, irripetibile, quella poi che ci viene dal cristianesimo. Cioè ciascuno di noi può mantenere la sua entità, la sua fissità (usando termini filosofici e ontologici) pur essendo in trasformazione. Non mette in antitesi queste due cose. Lo stesso marxismo, quando ci propone la visione del lavoro e della società, arriva a un punto fermo quando ci sarà uno stato senza classi. Quindi la trasformazione in quanto tale può andare avanti all’infinito, però si deve considerare che ha anche un punto fisso, uno scopo; altrimenti la trasformazione diventa qualcosa di irrazionale che non si può né studiare, né gestire, né vivere.

Gaibazzi: Questo è un dibattito che non finirebbe mai. Stiamo vicini al mondo. Perché se poniamo la questione dell’essere, del divenire cominciamo da lontano, da Eraclito (nell’Oriente c’erano già le conoscenze del puro divenire), ma possiamo arrivare più vicino, ad Heidegger, quando parliamo dell’oblio dell’essere sostenendo che l’uomo dimentica l’essere e diventa ente, coincidendo con la tecnica. Mi dispiace di non aver portato un mio lavoro per parlare di questo movimento che non ha principio né fine. Ho fatto una grande spirale prendendo uno dei simboli arcaici più lontani nel tempo (addirittura si parla di questo simbolo nell’epoca del matriarcato). E il simbolo dello sviluppo, del continuo movimento e della ripetizione differente, in cui non c’è né principio né fine. Ora già il principio della mancanza di principio e di fine va vicino a quella che tu consideri una entità immobile. Tutto il problema del pensiero occidentale è stato un pensiero che ha tentato di scardinare i dogmi iniziali sui quali si stabilivano delle entità immobili, immutabili, i famosi “immutabili” (idee platoniche, ecc.). Tutto il pensiero ha cercato di liberarsi di questi famosi immutabili per andare alla scoperta della pulsazione del reale. Quando si parla dei termini di movimento, bisogna pensare che non è qualcosa di semplicistico, meccanico. Se noi pensiamo che, ad esempio tutta la nostra cultura è fondata sull’identità, sui principi di non contraddizione (a non può essere non a), siamo poi andati alla relatività, ai principi della differenza. L’energia è la differenza, non l’analogia, la somiglianza, non l’equivalenza dove si chiudevano non le immobilità. Tutti questi principi erano i principi dell’immutabilità delle cose. E difficile pensare la differenza: noi siamo eternamente lavorati dalla differenza, siamo un continuo differire, noi differiamo da noi stessi.
L’idea non è che un passaggio verso la trasformazione: è come il concetto. Va a finire dentro una specie di sintesi, che è un concetto, che diventa uno strumento operativo. come noi forgiamo degli strumenti operativi di ogni tipo, anche materiali; il concetto, l’idea, è uno strumento di lavoro. Però, se pensi bene, la storia delle idee è nata proprio nel momento in qui questi grandi delle idee, a cominciare anche da Aristotele, dicevano: noi possiamo arrivare a questi concetti, a queste idee e a impostare una visione del mondo pulita, asettica, come quella filosofica, possiamo impostare una visione di tipo filosofico, perché abbiamo dietro di noi gli schiavi che lavora no per noi. Tu capisci che l’idea diventa una sintesi asettica, perfetta, proprio in un mondo che si divide, da una parte il lavoro e dall’altra il puro lavoro del pensiero, tant’è vero che il puro lavoro del pensiero, che sarebbe il lavoro intellettuale, ha un valore universale, il lavoro materiale invece è sempre soltanto privato, personale, misurabile. Al contrario ogni concetto è immediatamente per tutto il sociale. Capisci la grande valorizzazione del lavoro intellettuale separato che pone poi dei principi di questo genere: il lavoro intellettuale separato, che si separa dal lavoro manuale, lo ignora, lo trascura, lo rimuove.

Studente: Prima diceva che i lavori. questi tasselli presenti in ogni suo quadro, sono processi in atto e che lo scorrimento attivo produce il tempo e lo spazio; questa è una denuncia? Questi lavori sono le idee, non sono il lavoro materiale. E puro lavoro intellettuale?

Gaibazzi: E puro lavoro materiale. Quello che nella nostra cultura è considerato la fase esecutiva, la fase bruta, perché ciò che conta è l’idea, io dico che è la fase reale. Parlavo prima della spirale, la spirale è interessante perché non raggiunge mai la forma; sei nella pura e semplice fase esecutiva. Ma nell’interno della fase esecutiva è contemplato tutto: la trasformazione, l’apparizione del nuovo, la differenza che si organizza, ecc., però non muore mai in una forma. Se fosse un circolo ci sarebbe un lavoro che muore nella pienezza di un circolo.

Mambriani: Se permetti voglio ritornare all’ osservazione dello studente, per spiegare il concetto di Gaibazzi, per spiegare l’idea del lavoro e del progetto. Abbiamo fatto in questi anni molti seminari sul piazzale della Pace. In questi seminari Gaibazzi spiegava come al di sopra dell’idea progettuale, un’idea forte di grande architettura barocca divenisse del tutto secondaria. Esiste il lavoro dei muratori che hanno messo mattone su mattone e hanno “speso” (parola di Gaibazzi) tutta una serie di energie che sono molto più importanti del progetto e si identificano proprio in questa idea di spazio che lui ha della Pilotta, spazio urbano che deriva da tutte queste tesserine di mattoni, Quando scrive “lavoro” nei suoi quadri, si identifica col metalmeccanico, con l’operaio della Fiat, con l’artigiano: con le persone mai considerate, perché ad oggetto finito, nessuno si ricorderà di tutti questi ruoli intermedi: dei bravi muratori che sono serviti per fare le grandi opere, Ritornando al concetto di intellettuale è ovvio che sia ormai superato. Ed è superato da voi giovani. Oggi non c’è tanta differenza tra lavoro in intellettuale e lavoro manuale. Oggi ha la stessa nobiltà sia chi fa il manovale sia chi fa l’intellettuale.

Mazzocchi: lo credo che bisogna chiarire un termine: un tipo di lavoro è fatica (come dicono al Sud) e Gaibazzi scrivendo lavoro” scrive fatica,

Gaibazzi: Quando faccio le mostre, dove ci sono milioni di questa parola, la gente è spaventata e dice: “Ma che fatica!”. Per me il desiderio, e perciò il corpo, è bisogno di trasformazione. Quando lavoro, la mia corporeità batte nel lavoro, vivo, è una registrazione del mio battere esistenziale, io attribuisco un significato molto importante a queste cose, un significato di fondo, quello che fonda la nobiltà del l’uomo.

Mambriani: Vedi amo i quadri. Prima di questa fase in cui c’è il lavoro colorato c’era il lavoro inciso su perspex. Pensate alla perfezione di queste righe. sempre dritte e sempre fatte a mano libera, e senza mettere sotto la carta millimetrata, sempre perfette.

Gaibazzi: Sono talmente lontano dalla storia delle idee (come dicevi), che uno è concentrato nell’idea che tutte le volte che elaboro un’idea iniziale sono sicuro che sbaglio. Devo rifare mille volte fino a che ritorna puro lavoro. Per me l’idea deve essere interna al lavoro, alla procedura.

Diapositiva: La croce con la parola lavoro

Gaibazzi: La croce è la prima operazione che si fa su un foglio: la squadratura, l’attraversamento di uno spazio, di un percorso mobile. Il colore è relativo al momento dell’apparire del le cose. Il bianco è ancora energia perché non è uno specifico colore, li contiene tutti ma è ancora bianco. Invece il colore è relativo all’apparire delle cose. Le cose ci appaiono tramite i colori, Il movimento è sempre questo. Il movimento di fondo che non ha colore, che è la pura energia che si espande.
Passiamo a quelli dorati. C’era una parte scritta in bianco, dove non c’era proprio niente da vedere; siccome tutto è dominato dal visibile io dicevo: “Un bel quadro bianco e nessuno ci vede niente”. E tutta potenzialità, pura virtualità. Allora bisogna accostarsi per vedere la scrittura fittissima, allora c’era questo processo vibrante. Questi in bianco erano posti orizzontalmente per cui presupponevano una lettura, un avvicinamento, Quelli d’oro erano collocati contro il muro perché era proprio invisibile. L’oro che cos’è? E il rappresentante di tutti i valori, l’equivalente generale, è il valore che prevale su tutti i valori, è il visibile massimo, addirittura “crea incanto”. L’oro ha sempre questo significato: dell’inconciliabilità che c’è nella nostra cultura fra il lavoro e il valore oro. L’oro sembra la traduzione del lavoro, invece è l’occultamento del lavoro. Quando l’oro assume il valore simbolico che contiene tutti i valori e che diventa un assoluto, anche una grande potenza come simbolo, come riferimento, è impensabile che dalla suggestione del valore oro, che è puro feticismo. qualcosa che potenzialmente compra tutto, c’è la potenza dell’astrazione, della comperabilità del tutto, il tutto dei piaceri. Ma questa è astrazione: la vera concretezza è quella del lavoro che è sembra di fronte alla cosa: due cose che si fronteggiano luna con l’altra e si trasformano. Ed è questo pulsare del tempo. della trasformazione. L’oro è equivalente al sogno. C’è inganno. Sotto c’è una specie di movimento del generarsi del colore, non ci sono colori …, c’è il movimento, e sopra c’è il reticolo d’oro che lo copre. Il movimento del colore sotto è relativo alla parte inconscia (puro movimento) che si agita ma è tutto tenuto immobile e fermo dal valore oro. Questo è scritto in argento e questo in oro. C’è tutta una simbologia: questo scritto sulla sinistra in argento è scritto con la mano sinistra, quello a destra in oro è scritto con la mano destra. Perché? Ci sono i due emisferi del nostro cervello che sono governati da due leggi diverse, hanno due grammatiche interne diverse: l’emisfero destro che governa la sinistra e non è l’emisfero della logica, è l’emisfero della sensibilità, del movimento sotterraneo. L’emisfero sinistro che governa la destra è l’emisfero della produttività, della velocità della mente, è tecnicamente orientato verso uno scopo: perciò produttivo. L’altro è più segreto, è di carattere femminile, tanto che io li equiparo allo Yin-Yang (le culture orientali parlano dello Yin-Yang che sarebbero gli elementi femminili e maschili che continuamente nel cosmo si alternano e creano nell’universo questo movimento incessante). L’argento è il simbolico del lunare, il notturno, sarebbe il terrestre; l’oro è il solare, il maschile, il produttivo, il logico. Il problema dei due emisferi è una scoperta di qualche anno fa di Spoerri, un americano che ha fatto esperimenti tramite il dissezionamento della parte collosa che unisce i due emisferi e ha scoperto le logiche differenti dei due linguaggi, dei due emisferi. Quello che volevo dire io è che migliaia di anni di cultura occidentale hanno favorito il predominio dell’emisfero sinistro che governa la nostra destra, tanto è vero che sulla parte destra ci sono parole gloriose: la destrezza… La parte sinistra sono tutte parole negative (sinistro). Il dominio della nostra cultura ha fatto crescere, ha potenziato il linguaggio dell’emisfero sinistro, perché è congegnale a questo tipo di cultura, Il linguaggio dell’emisfero destro, ugualmente importante, è accantonato, sottomesso. Si deve raggiungere perlomeno l’equilibrio tra i due 1inguaggi. I Giapponesi invece valorizzano molto l’emisfero destro, che deriva da una stretta connessione tra il sistema ideografico con le immagini.

Studente: La teoria dello scambio delle energie già da Leonardo da Vinci è dimostrata: lui aveva giù queste cognizioni di reazione diverse.

Mambriani: (diapositiva ) il tema urbano per Gaibazzi è sempre stato importante: queste sono le parti delle cupole della Steccata, prende un pezzo di cupola e, come Andy Warhol ripete in alcuni quadri la lattina, per tante volte lui ripete pezzi della cupola della Steccata. Quindi l’idea della ripetitività collegata all’elemento urbano. –

Gaibazzi: La differenza con Andy Warhol, e in generale con la pop americana, era relativa agli oggetti di consumo, che erano i grandi feticci del mondo moderno. Allora ho pensato che in Italia i grandi oggetti emblematici erano le Cattedrali, i monumenti della storia perché gli Americani non hanno questi monumenti, mentre noi li abbiamo grandi ed imponenti.

Mambriani: Questo è il Duomo. E una sovrapposizione tra la torre del Duomo (che vedete sulla destra) e altro; intatti è anche una sovrapposizione di stili: tra il romanico nel Duomo di Parma, il romanico pisano, col bianco e nero: e anche il San Zeno, dove c’è il doppio colore.

Gaibazzi: La pop è relativa agli oggetti, la vistosità degli oggetti come sono rappresentati dalla pubblicità, è una caratteristica del nostro sistema di immagini. Io dicevo che la chiesa è venuta prima. Quando la chiesa ha inventato queste strisce aveva una capacità di autopubblicità incredibile: è in schema visivo più forte che si possa pensare.

Mambriani: Certo, cosa ben presente a papa Woityla anche nelle messe di Pasqua: l’idea dello spazio. La stessa San Pietro non a caso doveva essere la chiesa Più grande del mondo per essere rappresentativa della forza della Chiesa e del Vaticano.

Gaibazzi: Questo è il Duomo in negativo: c’è lo spazio che divora tutto (Absidi).

Mambriani: Devo dire chi è Gaibazzi? E’ avvantaggiato dal fatto che vive sopra al Battistero: le finestre di casa sua guardano il Battistero, il Duomo, le cupole e quindi questa costanza dell’elemento architettonico nella sua vita gli viene anche dal guardare fuori dalla finestra. Questi sono particolari di una architettura minore,

Gaibazzi: Sono due sguardi completamente diversi: l’altro a colori era un modo di guardare le cose mediato dalla pop; le cose che vedete rappresentate in questa successione sono molto scure, nere, tagliate senza base come campeggiassero. Però, secondo la mia volontà, erano molto intrise di storia, io sceglievo sempre dei punti in cui fosse condensato un permanere forte, gravante della storia, e soprattutto della storia umana. Cose umili ma veramente risonanti di storia vissuta.

(Diapositiva): Se voi guardate il Duomo di notte sentite che è questo immenso nostro acquatto, sentite la potenza, ma la potenza di questa presenza non è la potenza di un oggetto industriale molto grande. Se io penso ai tempi di lavoro di quell’epoca. erano tempi lunghi; Però questo tempo lungo continua a rimanere iscritto nella presenza delle cose e loro pulsano di una qualità quasi temporale. Mi dà l’idea che sia vivente. C’è una pulsazione forte, la senti enorme e la qualità di queste enormità è che non è trascendente, è una grande qualità intrisa d’umano.

(Diapositiva): Le case. E più facile che il nostro sguardo sia attratto dallo splendore di un oggetto industriale, levigato. Il nostro sguardo sfiora queste cose, ci sono familiari però non le cogliamo. Ho voluto capovolgere questo fatto: ciò che sfugge e ciò che è rimosso.

Mambriani: Il ragionamento da archi tetto uguale al tuo da pittore è quello che occorre valorizzare gli elementi ambientali nella città in contrapposizione ai monumenti che sono già di per se stessi valorizzati. Bisogna dare valore all’ambiente.

Gaibazzi (diapositiva): E un taglio un po’ ossessivo, intanto non ci sono figure, presenze umane, era proprio cogliere quello che è scritto nei muri, nelle cose. Non c’è la descrizione della vita umana attraverso la figura umana.

Mambriani (diapositiva): Qui c’è la parte poetica, subito dopo la guerra. Non è ancora forte l’idea dell’architettura. Gaibazzi si concentra su storie di vita. Siamo al momento del neorealismo italiano.

Gaibazzi (diapositiva): Qui è piazzale della Pace com’era. E il momento di passaggio. E cominciava allora la storia dei cartelloni: la presenza della pubblicità. Era ancora un periodo in cui l’Italia era in una miseria tremenda, ma nello stesso tempo in cui mancavano le cose, cominciava già il lavoro della pubblicità. C’era la povertà estrema e la sollecitazione al sorriso. Vedrete un ometto con un gran sorriso. Qui si affaccia il benessere, cominciano le prime sollecitazioni di quello che poi sarebbe stato definito il benessere, il boom economico. Qui c’era alla periferia, uno zuccherificio, l’Eridania. Altre storie di solitudine e di miseria. Personaggi solitari nel buio.

Mambriani: Scale, tristi case di tolleranza…

Gaibazzi: Vi racconto una cosa divertente: c’erano le signorine che stavano ad aspettare. Sui muri c’erano i graffiti della gente che stava lì in attesa.

(Diapositiva): E un posto di miseria e vetri rotti sono sostituiti da giornali. E sui giornali ci sono già le lusinghe della pubblicità e delle dive. Il diaframma fra il mondo esterno e il mondo privato era questa finestra.

Mambriani (diapositiva): La famosa tessitura. Lavoro, lavoro, lavoro: non è altro che mattone su mattone. Tracce di umidità; mattone nuovo insieme a mattone vecchio. Qui è uno sfratto: carabinieri, madre e padre che porta no via i mobili e il bambino che rimane seduto sulla rete del letto (sapete che la legge dello sfratto, in Italia, prevede che si possa requisire tutto, ma non il letto).

Gaibazzi: La rete è la nudità massima. Qui c’è un prete che guarda dal buco di una serratura, in un cantiere dove c’è scritto “vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori”. E un prete non lavora.
Questi erano i famosi mutilatini del Don Gnocchi…

Remo Gaibazzi ©2022 – Tutti i diritti riservati