Conversazione tra Remo Gaibazzi e Lauro Azzali - Remo Gaibazzi

Conversazione tra Remo Gaibazzi e Lauro Azzali

PREMESSA – UNA DICHIARAZIONE DI POETICA

Tutti coloro che hanno conosciuto Remo Gaibazzi sanno che considerava parte integrale del suo lavoro essere sempre presente alle proprie mostre per mettersi a disposizione dei visitatori: dialogare con la gente – sosteneva – era l’indispensabile complemento dell’esposizione delle opere, un gesto che, da solo, gli sarebbe sembrato monco e astratto. E tutti quelli che hanno accettato il colloquio con lui sanno con quanta eloquenza e semplicità, con quanta efficacia, comunicava agli interlocutori le ragioni e le passioni che animavano il suo operare. Ho detto «eloquenza e semplicità» perché non si trattava di esegesi pretenziose (nelle pagine che seguono si può vedere come tenesse a distanza il “bello stile” dei critici d’arte, non meno che degli artisti), ma di discorsi che, a dispetto della ricchezza di riferimenti culturali, non abbandonavano mai il registro del linguaggio quotidiano.
Nel 1990, in occasione della mostra dei “grigi” tenutasi presso la Galleria Mazzocchi, alcuni amici, con la collaborazione di R. Degli Alberi, pensarono di registrare su video, all’insaputa di Gaibazzi, uno di questi suoi colloqui: Lauro Azzali si prestò a porgere delle domande, come in una chiacchierata informale, alle quali il pittore, secondo il solito, rispose con ampie spiegazioni. Purtroppo il microfono era semplicemente abbandonato su un tavolino e quindi la registrazione risultò frammentaria e disturbata (particolarmente incomprensibili, purtroppo, gli interventi di Azzali); inoltre, proprio perché non sapeva di essere registrato, Gaibazzi non si preoccupò certo di evitare gli anacoluti e i periodi sospesi, le allusioni e le ripetizioni, le incertezze e le pause del parlato: questo spiega i numerosi difetti della trascrizione che segue (che inoltre è soltanto un brano – l’unico conservato – di una conversazione più lunga, a sua volta lacunoso perché spesso coperto da rumori di fondo), ma che comunque offre, secondo noi, alcuni elementi di una dichiarazione di poetica davvero preziosi.
Conviene infine avvertire che, assumendomi la responsabilità di trascrivere il testo, al fine di rendere la lettura il più agevole possibile sono intervenuto con grande libertà, anche se ovviamente mi sono sforzato di non tradire il pensiero di Gaibazzi: tutti gli interventi (a parte la punteggiatura) e tutte le lacune (o i tagli dei passi indecifrabili) sono del resto segnalati da parentesi quadre; non sono segnalate, invece, le soppressioni delle numerose formule con funzione fatica (“no?”; “capisci”, “vedi”, “insomma” ecc.). Comunque, chi volesse fare una verifica sulla registrazione originale, può sempre consultarla presso l’Associazione, dove è conservata a disposizione degli studiosi.
Un ringraziamento particolare a Lauro Azzali e Riccardo Degli Alberi, che più di vent’anni fa effettuarono quella registrazione; un altro al dott. Luca Busi che ha fatto il possibile per cercato di ripulire la registrazione stessa, aiutandomi così a decifrare un bel numero di passi che sarebbero rimasti inintelligibili.

Andrea Calzolari
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[…]

Remo Gaibazzi: […] Sì, non c’è nessuna alterazione, nessuna eccitazione…

Lauro Azzali: Non c’è l’ebbrezza o l’esaltazione…

R.G.: …no, perché non c’è niente di simile. Tant’è vero che questa cosa non vuole assolutamente essere effusiva, non vuole esprimere assolutamente nessuna sorta di emozioni. Con questo, però, non si esclude che noi viviamo delle emozioni. Il problema è: se tu fai un certo tipo di lavoro che ha un carattere espressivo, tu isoli un’emozione e la trasmetti fuori con un gesto, come faceva l’action painting e come fanno tutti quelli che con la gestualità esprimono i problemi dell’interiorità.
A me questo non interessa, perché sono già dall’altra parte. Non sono nell’interiorità. Sono in un punto in cui tutte le mie componenti psicologiche diventano uno stato e diventano operative, per cui perdono la loro caratteristica patologica (quando isoli una componente psicologica, acquista immediatamente una caratteristica patologica, perché la isoli, la fissi…). Per cui io ci sto bene, lì dentro, in quella dimensione di scorrimento. A me, alzarmi al mattino e trovare un lavoro che era stato abbandonato la sera precedente, e continuare e basta, continuare, sapendo che il nuovo viene fuori inevitabilmente, perché ogni atto è nuovo, è irripetibile, è unico, è diverso dal precedente, questa per me è una condizione… una condizione estremamente piacevole, più che l’esaltazione di avere un’ idea che ti folgora… un procedere, […] è un susseguirsi che si sviluppa nel tempo e nello spazio.
Poi c’è il fatto che ci vuole molto tempo; ma mi piace l’idea che ci voglia molto tempo, rispetto alle considerazioni economiche che calcolano la velocità… Qui, se vuoi, c’è tutto un discorso sulla monotonia, sulla lentezza…

L.A.: La misura…

R.G.: Sulla misura… e poi andiamo nel discorso che per me è [fondamentale], il discorso della sobrietà. La sobrietà per me è l’estasi, per altri invece l’estasi è l’eccesso. Quando dico di stare in quella dimensione, è la dimensione della sobrietà, ma una sobrietà attiva, una sobrietà che è più ricca dell’eccesso, della dismisura.
L’ho sempre detto di tutte le fughe…, non so, quando parti dall’idea della piattezza della vita, del grigiore, della noia, cosa fai? cerchi sempre di avere le emozioni forti, che corrispondono ai colori squillanti, no? Simbolicamente il colore squillante corrisponde a un’emozione forte che tu cerchi per fuggire da ciò che consideri grigio, noioso, ripetitivo. […] Se invece uno sta attento alla ricchezza di questo grigio, c’è dentro un’infinita varietà di grigi […]: qui ci sono sessantacinque varietà di grigi. Però questo lo cogli se non fuggi, se sei capace di sentirlo, di viverlo, di scoprire tutti gli aspetti sottili, magari delle sfumature… Questo tipo di esperienza è diversa dall’esperienza dello shock, è stare fedeli alla realtà in modo da scoprirne tutte le pieghe, tutte le sfumature, tutte le cadenze, le intonazioni, vedi? tutte le intonazioni di colore. È questo modo di apparire del nuovo, sommesso, non deflagrante […], un modo di apparire sommesso, per cui stai lì vicino, attento. Per me questa è una cosa importantissima.
Non è una mia mania personale. È un fondo comune a tutti gli uomini, che viene esorcizzato perché c’è l’angoscia del bisogno di avere emozioni forti. Considerare un periodo grigio per avere poi il piacere di una folgorazione, di un piacere forte. Tutti partono da questa idea, di avere un tragitto grigio (sarà la settimana rispetto alla domenica, chiamala come vuoi, in tutte le forme) e poi un’emozione forte.

L.A.: Anche i fondi degli specchi hanno una superficie argentata, però in questo caso il grigio del fondo non fa specchio, non rinvia, assorbe…

R.G.: […] Il fatto che ci sia un’operazione semplice, come quella di scrivere una parola, che deve però mantenere anche il valore semantico (non come la poesia visiva che distrugge l’aspetto semantico della parola per farla diventare soltanto immagine) mi consente di andare a pescare gli elementi del mio fare non nella zona dell’arte, ma nella zona della vita. Questo mi fa pensare alla possibilità di organizzare qualche cosa che tu cogli nella vita stessa, facendo, producendo un tipo di realtà che non è la realtà dell’opera ([…] dentro ai codici attraverso i quali si produce un certo tipo di realtà che è la realtà dell’opera), [ma è] la realtà comune, la realtà reale, operativa, reale. [….] Tentare di fare un discorso di superamento dell’opera […] [ogni formella] è in riferimento all’altra, è una relazione con l’altra, non si dà da sola. E così anche tutto il tragitto è un tragitto, è un percorso, è un’operazione, non è un’opera. Però… questo tipo di attività, di movimento non è il bel segno pittorico, non è il tocco, non è la storia di gesti che appartengono alla pittura […]

L.A.: […]

R.G.: […] io li chiamo “quanti” operativi, non sono né il bel tratto né il bel tocco né la morbidezza delle cose che appartengono alla storia della pittura, alla storia delle forme di rappresentazione. È un atto operativo, che è comune a tutti. Tant’è vero che non faccio neanche della bella scrittura, neanche della bella calligrafia, faccio apposta uno stampatello che non abbia nessuna connotazione psicologica, che non ci sia nessun tentativo di virtuosismo, di abilità particolare, non c’è nessuna abilità particolare, che sarebbe sempre quello che viene attribuito all’artista, di avere un’abilità particolare

L. A.: Sulla forma del quadrato?

R.G.: La forma del quadrato, intanto perché tutte le altre forme, rettangolari, [orizzontali o verticali che siano] […] dànno un’idea di figurazione […] sono relative all’inquadramento di qualche cosa fuori; il quadrato [invece] no, il quadrato è una spazialità inizialmente neutrale, che non ha dei rinvii simbolici, che poi viene attraversata da questo movimento. Basta. Il formato l’ho studiato in modo che non sia né troppo piccolo, perché entra nell’intimo, né troppo grande, ché se fosse più grande, tenderebbe a diventare quadro, a diventare un’opera, isolata.
Invece il formato medio non ha una caratteristica che si impone, per cui [i singoli elementi] scompaiono perché sono tutti attraversati da questa spazialità in atto, una spazialità che continuamente si riproduce, si rincorre… e anche dal tempo, attraversati da questo lungo tempo. Perché a un certo momento, cosa c’è? Di fronte c’è l’istantaneità, l’istantaneità che nega, tende a negare tutta la temporalità che si sviluppa, se tu cominci a entrare nel movimento della processualità. […] voglio dire…: [quando] noi siamo dominati dall’istantaneità, perdiamo il senso della temporalità; lo perdiamo perché la temporalità, le esperienze della temporalità sono di natura diversa dalle esperienze che hai nell’istantaneità, completamente diverse. Infatti qua non c’è niente di contemplativo, [mentre] nell’istantaneità c’è sempre un carattere contemplativo, sei frontale, sei di fronte a qualche cosa in cui c’è uno shock, c’è un incanto, c’è un atto percettivo coinvolgente; qua non c’è niente che abbia a che fare con l’aspetto contemplativo della vita. Tant’è vero che insisto nel dire che il soggetto a cui mi riferisco è un soggetto ritmico, e non è un soggetto musicale. La formazione primaria del soggetto viene pensata o di ordine musicale come risonanza, oppure ritmica: per me è ritmica, nel senso che… lo sdoppiamento primario del soggetto ha un carattere ritmico, [e] il carattere ritmico non ha le connotazioni emotive che ha il carattere musicale

L. A.: È un procedere in continuità o c’è stata una frattura nel tuo modo di lavorare in questi ultimi vent’anni? Rispetto alla altre mostre o ad altre esperienze…?

R. G.: Le mostre precedenti, tu le hai viste, sai come erano. C’erano dei quadri che erano veramente dei quadri. Anche se c’era all’interno un movimento, però la loro presenza, il formato, com’erano fatti, i loro ingredienti… erano quadri isolati; lo spettatore [poteva dire]: questo mi piace di più, questo mi piace di meno, ma [li concepiva] tutti come opere, come opere chiuse, definitive, che avevano una loro armonia interna, e che erano in un rapporto uno con l’ altro soltanto d’ordine qualitativo. […] Qui non c’è questo elemento: [queste] non sono opere, sono dei passaggi di relazione, ognuno è in relazione all’altro. Questo rosa che tu vedi, lo vedi perché…, come si può dire?, è il verdino vicino che potenzia il rosa che ci vedi accanto; [ma] se tu estrai il rosa, lo isoli e lo guardi da solo, è grigio, è perfettamente grigio. È la vicinanza [reciproca] che accende [le rispettive] tonalità. Continuamente fuggono da sé perché sono una relazione, sono sempre rivolti a un’altra cosa, … rivolti alla successione. Tutto è fondato su un prima e un dopo […]
Tento uno spostamento dalla cultura d’oggetto alla cultura della relazione. Perciò c’è la smaterializzazione, c’è un modo di morire alle cose differente da quello della cultura d’oggetto e anche della cultura d’immagine.

L. A.: Forse quel che resta di ciò che ha costituito il tuo itinerario è proprio questo aver messo a punto il procedimento di esaltazione dei tratti del lavoro a discapito della dipintura di superficie, [come] la pittura ad acrilico della mostra ai Contrafforti[1]. Direi che il tratto che ha differenziato le cose è stata la mostra a Lamanuense[2].

R. G.: Quella mostra, Il dritto e il rovescio, era un po’ il corrispettivo di questa, perché anche là c’era un movimento infinito, [ogni faccia del foglio] era in relazione alla [faccia opposta], si rinviavano continuamente, in un movimento necessario. La storia è un po’ cominciata da lì, ma la storia vera incomincia con l’atto della scrittura e non con il segno di origine pittorica. C’è una bella differenza tra un tratto e questo stesso tratto scritto, c’è una differenza enorme: per l’uno c’è una lettura tutta psicologica, espressiva, mentre l’altro è soltanto un atto operativo, transitivo, opera, trasforma…

L. A.: […]

R. G.: Dolore, sacrificio, perché lo si vede sempre nei termini in cui l’ha costretto il condizionamento economico, siccome l’economia è ciò che controlla il mondo, è ciò che domina il mondo, è chiaro che un’economia produttiva è fondata sulla tecnica che produce velocissimamente le cose, e fonda il suo potere sull’incantamento della presenza delle cose, non sulla conoscenza delle procedure che hanno portato a presenza le cose; fonda il suo potere sull’incantamento immediato della presenza delle cose, anche perché la tecnica, il gesto tecnico scompare, non è significativo.
È un’operazione da Don Chisciotte, è un’operazione da Don Chisciotte … scoprire il valore della monotonia nel mondo della fantasmagoria…
[…] è incapace di cogliere la qualità dei movimenti; la civiltà occidentale, diceva Nietzsche, ha inventato la forma perché è totalmente incapace di cogliere il divenire. Tutti sono in grado di cogliere la forma, il problema è cogliere la potenza del divenire… fare una cosa che non sia un’illustrazione di un’altra cosa, ma che sia un altro momento energetico, di natura diversa, su un registro diverso, come quello di un altro mezzo, ma che sia questo continuo spostamento dell’energia, mobile, attiva, che non sia un’illustrazione.

L.A. : Un catalogo…

R. G.: La critica è così: si pone lì davanti. Arcangeli, bravissimo, perché era un letterato finissimo, aveva un uso della parola straordinario e faceva combaciare la bellezza della parola con la bellezza del tratto pittorico, però [le sue] erano descrizioni. Secondo me, non si dovrebbe mai descrivere niente, bisognerebbe saper cogliere l’energia che sta dentro alle cose. Derrida dice «La forma affascina [quando non si ha più la forza di comprendere la forza nel suo interno»[3]] […] Il problema è la famosa ripetizione differente, dove continuamente ogni atto rilancia l’altro, è in perdita continua. […] Tutto è impostato su una questione di rilancio continuo di relazioni. I grigi sono in relazione coi grigi, le scrittura con le altre scritture, è tutto un problema di relazioni, [in modo da] distruggere qualsiasi cosa oggettivata – come è una produzione meccanica, che è sempre un’oggettivazione -, per sfuggire a qualsiasi fissità.[…]

L. A. [non si comprendono le parole, ma evidentemente, come si può desumere dal contesto, L. A. pone il problema della riproduzione meccanica, ipotizzando che le formelle siano eseguite con procedimento serigrafico]

R.G.: Quando sei nella logica… è un cambiamento di natura, il gesto vivo e la riproduzione [meccanica], non è un cambiamento di grado, è un cambiamento di natura. Infatti l’ossessione di queste cose è in un contrasto assoluto con la riproduzione meccanica. [Pensa] agli esempi presenti, come alla mostra in atto di Warhol[4]: Warhol è proprio la macchina che registra i dati esistenti più evidenti, la sua serialità è una serialità di tipo meccanico. Il problema è estremamente sottile ma, nello stesso tempo, è molto profondo.
Pensa alla spirale, che è un movimento di continuo scarto di differenze, di differenza in differenza, in cui il nuovo inevitabilmente appare, senza che tu ti proponga intenzionalmente di voler fare il nuovo. È in quel fatto lì, stare dentro a quel movimento lì, che è una diversità totale […] quando vai nella meccanica c’è una riproduzione del già esistente, invece questo qui è esistente nell’atto, sempre e soltanto,… cioè qui la direzione, lo spazio e il tempo appaiono nel momento in cui tu li tracci; nell’atto stesso in cui li tracci, tu produci il tempo, lo spazio, non è un qualche cosa che s’accampa dentro un tempo, dentro uno spazio…Lo spazio avviene nel momento in cui c’è un atto che produce questo apparire dello spazio, del tempo e della direzione […]
Sto tentando di portare il valore estetico sull’atto operativo, che è sempre stato considerato l’atto fondato sull’utilità, [cui] perciò è sempre stato negato un valore estetico. L’atto operativo non è una riproduzione, è un atto vivente. Leggevo di Merce Cunnigham[5] che dice che il movimento è espressivo indipendentemente dalle intenzioni: […] la cosa difficile da capire è [proprio] il carattere espressivo del movimento in quanto tale, indipendentemente dagli scopi, perché in genere si legge il carattere di un movimento soltanto nello scopo finale. […]

L. A.: Mi ha depistato la lettura del catalogo, dove si allude a un procedimento serigrafico. È possibile che sia stato un [equivoco?]. Infatti so benissimo che il tuo itinerario non prevede la ripoducibilità del lavoro attraverso procedimenti, ma non si sa mai… Si possono ottenere delle variazioni anche con procedimenti meccanici…

R.G: Non avrebbe senso, perché tutte le questioni sono immediatamente visibili. Una linea lunga più del normale, che sfonda una linea che si può abbracciare con l’occhio, per cui deve dare questa idea, che va avanti in continuo movimento, che non finisce mai. Quando oltrepassi una soglia che possa essere raccolta in uno sguardo, e in quanto tale immagazzinata dentro tranquillamente, tu vai verso un’altra cosa; il problema è che qui ce n’è una quantità eccessiva; fatti a macchina, allora ne puoi fare una quantità eccessiva. Il problema è che questo significato viene fuori dal fatto che è proprio l’atto pulsante, continuo, che corre, che corre, che corre, che va avanti, […] in questa linea che attraversa tutto e che è una sorta di dismisura, […] [fino a] distruggere persino la fissità del concetto di opera, perché [questa] non è un’opera, è un’operazione. È troppo lunga per essere un’opera, per essere abbracciata con uno sguardo, [come] qualcosa di fermo. È un’operazione che necessariamente ce n’è molta proprio perché deve avere il carattere ossessivo che io do a questo gesto, che per me è un gesto primario, non è mica il gesto del lavoro economico, è il gesto primario in cui noi siamo continuamente in relazione col divenire, colla trasformazione, con il mutamento e siamo continuamente lavorati e lavoriamo […]

L.A.: È stata una svista, non so per quale motivo mi sia venuta l’associazione […] Siamo talmente non abituati a vedere un procedere… che si pensa subito…Dev’essere stata proprio un’associazione mentre guardavo i lavori… è una sfida che tu lanci all’occhio e all’abitudine…

R.G.: […] Parlando di questa lunga, lunghissima linea, l’ho fatta apposta… deve essere ossessiva per la gente …quasi… quasi da rifiutare, perché sembra uno sforzo troppo grosso […] Il mio problema era di fare un discorso sulla monotonia, sulla profondità della monotonia dell’essere, del vivere, partendo da lontano, dall’idea che il soggetto umano è grigio, non è né bianco né nero (contrapponendomi ad alcuni schemi della pittura che fugge nella purezza oppure nel buio dell’inconscio), [dall’idea] che il soggetto è grigio ed è ritmico, prima che musicale è ritmico, per cui è sempre una relazione. […] è chiaro [allora] che dovevo impostare questo continuo lavorio di relazioni che si rilanciano continuamente una con l’altra; [per] produrre continuamente differenze, scarto, movimento, anche dispendio… ed eliminare qualsiasi forma di fissità, di raggiungimento fissato [a] quel comportamento normale che coglie le cose quando sono finite.
Per questo dicevo che tutto è impostato sulle relazione dei grigi, perché il grigio è soggetto, il grigio è già una contaminazione ([dunque] rifiuto della fuga verso gli assoluti della purezza o dell’abisso dell’inconscio), è relazione in quanto è composto, è bianco e nero e, in quanto tale, il grigio, mentre il colore è, il grigio agisce, è movimento. Questa cosa è […] liberazione della processualità, del divenire, del mutamento incessante, del corrispondere al divenire interiore, nel rapporto fra l’interno e l’esterno, essere continuamente la soglia […]
Quello che volevo sottolineare è questo fatto: quando tu ti metti da questa distanza davanti a quelle cose lì, cosa fai? Fai delle considerazioni sul grigio, vedi un grigio, delle varietà di grigi, e puoi avere anche una cattura di piacere estetico relativo a qualche cosa di pittorico; […]

L.A: La prima cosa che mi viene in mente è l’indefinito. Il grigio è ciò che resta…

R.G.: …però il problema è che da questa distanza tu vedi un grigio, vedi una linea grigia, e in genere la [persuasione?] della gente è che da una certa distanza tu afferri la realtà, in questo modo, attraverso l’esperienza immediatamente visiva; però per cogliere veramente la realtà, tu devi varcare questa soglia e andare in una vicinanza che implica un atteggiamento diverso, non più visivo; vai verso la lettura e verso una sorta di partecipazione al movimento; voglio dire che la realtà è quella, è quella che tu da questo punto qua non vedi. Questo è il punto in cui noi siamo abituati a cogliere la realtà, ma questa è un’illusione, la realtà è quello che tu non vedi, è quello che sta dietro questa presenza qua, è quello che spinge a venir presente questa cosa qua che tu vedi, ma la realtà è quella là, quel movimento là continuamente in atto, che non cessa mai. Questa è la chiave, eh?… non è mica un particolare, questo è il senso della cosa…

L.A.: Ma questo tipo di lavoro in questo caso su una formelle di plexiglas, che ha un suo spessore, una sua densità, una sua trasparenza, può essere lavorata anche con il grigio, per alludere a un indefinito e nello stesso tempo par dargli un fondo.

R.G.: Intanto c’è lo stesso colore che uso per la scrittura, lo uso per il fondo dietro la lastra, in modo che non ci sia una scrittura che s’accampa su un campo neutro, ma è il suo riflesso stesso, per cui c’è già una relazione; in più […] questo movimento di spessore, secondo me dovrebbe anche visivamente aumentare il brulichio, il senso dell’intensità mobile che c’è dentro […]

L.A.: Quello che volevo dire è che l’indefinito è vertiginoso; in un certo senso questo lavoro di superficie potrebbe essere come una specie di prender tempo per non sentire la vertigine. Allora è un po’ la storia di Penelope e della tessitura, del prender tempo e dell’intrattenersi per non sentire questa altra profondità di tipo vertiginoso

R. G.: Non so di quale profondità altra tu stai parlando; sto pensando a quello che…

L. A.: Io volevo dire: come si può trattenersi dal richiamo delle sirene?

R.G. : In che senso? Le sirene sarebbero?

L. A.: Il richiamo vertiginoso: allora il fatto stesso di scrivere in superficie sarebbe un po’ come trattenersi…

R. G.: No, non è che tu, a un certo momenti ti trattieni sulla soglia, diciamo sulla superficie, per la paura dell’abisso o per la paura della trascendenza, non so, dell’assoluto o del bianco, o di tutte quelle cose; […] è la condizione umana di essere questa soglia, in questa soglia, di passaggio fra le cose, e di essere una relazione: il fatto che questo venga considerato come il limite dell’uomo, e che [si] aspiri invece a degli assoluti, è una fuga; per me questa [condizione] corrisponde al grigio (anche in termini metaforici, quando si dice il “grigiore” della vita) e la grandezza dell’uomo è proprio questo grigio, questo limite, questo essere una soglia, mobile, un qualche cosa che è continuamente trapassato, continuamente in uno scarto da sé, e sempre essere soltanto una relazione; questo per me è la grandezza, per cui io non ho bisogno di fughe, di andare verso degli assoluti. Ma, voglio dire, non è che faccio questo per la paura dell’inconscio o per la paura di cadere nel mistico, del puro spiritualismo; no, io dico: il grigio è idealistico e materialistico nello stesso tempo, perché è la coniugazione dei due elementi, della corporeità e dello spirito, perché è una relazione, è una relazione col mondo, è soltanto questo essere in relazione; e allora questo fatto non ha un colore; il movimento non ha colore, è un composto che invece di presentarsi nella sua presenzialità assoluta, agisce, è mobile, è dinamico…

[…]


[1] Si tratta della mostra del 1970 presso l’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Parma.

[2] Si tratta della mostra Dritto e rovescio del 1976: erano esposti, o per meglio dire appesi ad un filo d’acciaio, fogli di carta incisi con la punta del compasso.

[3] «La forme fascine quand on n’a plus la force de comprendre la force dans son dedans». J. Derrida, L’Ecriture et la différence, Paris, Seuil, 1967, p. 11.

[4] Nel 1990 fu allestita a Palazzo Grassi (Venezia), la mostra Andy Warhol – Una retrospettiva, a c. di G. Aulenti.

[5] Il famoso coreografo fu in tournée in Italia nell’aprile-maggio 1990.

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